giovedì 20 gennaio 2011

San Domenico Savio




«Presto, venga con me»
Dicembre 1856. L'aria è fredda perché è già scesa la notte. Don Bosco, nel suo ufficio, sta rispondendo alle let­tere arrivate in giornata, di benefattori, di gente che chiede preghiere, di ragazzi che sono stati suoi amici all'Oratorio e vogliono continuare a parlare con lui.
Qualcuno bussa alla porta.
- Avanti, chi è? - Sono io - dice Domenico Savio entrando rapido. Ha il volto serio e pensieroso -. Presto, venga con me. C'è una cosa importante da fare.
- Adesso, di notte? Dove vuoi condurmi?
- Faccia presto, Don Bosco, faccia presto.
Don Bosco esita. Ma guardando Domenico vede che il suo volto, di solito così sereno, è molto serio. Anche le sue parole sono decise come un comando. Don Bosco («aven­do già provato altre volte l'importanza di questi inviti», scrive) si alza, prende il cappello e lo segue.
Domenico scende velocemente le scale. Scrive Don Bo­sco: «Lo seguo. Esce di casa, passa per una via, poi un'al­tra, ed un'altra ancora, non si arresta né fa parola; prende infine un'altra via, io l'accompagno di porta in porta, fin­ché si ferma. Sale una scala, raggiunge il terzo piano e suo­na una forte scampanellata.
- E qua che deve entrare - mi dice. E subito se ne va».
La porta si apre. Si affaccia una donna scarmigliata. Ve­de Don Bosco e alza le braccia al cielo:
- È’ il Signore che la manda. Presto, presto, altrimenti non fa più in tempo. Mio marito ha avuto la disgrazia tanti anni fa di abbandonare la fede e di iscriversi a una setta anti-cristiana. Adesso sta morendo, e chiede per pietà di po­tersi confessare, perché ha paura di presentarsi al tribunale di Dio.
Don Bosco si reca al letto dell'ammalato, e trova un po­ver 'uomo spaventato e sull'orlo della disperazione. Lo confessa. Gli dà l'assoluzione a nome di Dio. Poche ore dopo quell'uomo muore.
Il giorno dopo, Don Bosco è impressionato di ciò che è accaduto. Come ha potuto quel ragazzo di 14 anni sapere di quel malato e della sua urgenza di mettersi in pace con Dio? Avvicina Domenico in un momento in cui nessuno li ascolta.
- Ieri sera, quando sei venuto a chiamarmi, chi ti aveva parlato di quella povera persona?
Allora succede una cosa che Don Bosco non si aspetta­va. Domenico lo guarda con aria mesta e si mette a piange­re. «Non ho più osato fargli altre domande» scrive. Ma capi­sce che nel suo Oratorio c'è un ragazzo al quale Dio parla.
La sorella di Domenico Savio, Teresa, testimoniò sotto giuramento: «Don Bosco, quando mi narrava questo fatto, soggiungeva che non era mai riuscito a comprendere come Domenico avesse saputo guidarlo a notte oscura, attraverso le vie di Torino che certamente gli dovevano essere ignote, e concludeva dicendo: - Si vede proprio che Savio era un giovanetto santo, e che conosceva tante e tante cose!».

La stufa di don Cugliero
L'incontro di Don Bosco con Domenico Savio era stato provocato (oltreché dal Signore) da una grossa stufa: una di quelle stufe di campagna che ingoiano legna e in cam­bio diffondono un calore onesto e buono.
Don Giuseppe Cugliero era l'insegnante della scuola elementare di Mondonio. Domenico, da Morialdo, era arrivato in quel paese con la sua famiglia nel febbraio 1853, e si era subito iscritto alla scuola per finire le ele­mentari.

All'inizio dell'inverno 1853-54, don Cugliero aveva in­timato ai suoi trenta scolaretti:
- Venire a scuola al freddo è impossibile. Quindi d'ora innanzi ogni mattina, insieme ai libri, porterete un pezzo di legno. Li metteremo nella stufa, e così staremo al caldo fi­no a mezzogiorno.
Anche Domenico, da quel giorno, portò ogni mattina, insieme con i libri e i quaderni, un tronchetto o uno scheg­gione di legno. La stufa tirava a dovere, e la scuola era scaldata proprio bene.
Una mattina del febbraio 1854 nevicava forte. Due alunni (grossi e maleducati) arrivarono senza il pezzo di legno. Don Cugliero non c'era ancora, e uno osò dire:
- E voi, perché non avete portato la legna? Quei due ridacchiarono, parlottarono tra loro, e usciro­no. Pigiarono della neve fino a farne due pallottolone, poi rientrarono portandole sulle braccia. Dissero:
- Ecco la nostra legna! Aprirono il coperchio della stu­fa e buttarono dentro la neve. Ridevano male, mentre quasi tutti gli altri guardavano in silenzio. Solo quattro sce­metti (quattro scemetti si trovano in tutte le scuole del mondo!) si misero a ridere con loro, come se fosse stato un grande scherzo. La stufa fumò, lasciò filtrare un po' d'ac­qua e si spense. Quando arrivò don Cugliero era bell'e spenta. Don Cugliero era un insegnante severo, che casti­gava battendo la bacchetta sulle dita degli alunni, metteva in ginocchio e cacciava dalla scuola. (Allora tutti gli inse­gnanti facevano così). Quando vide quella stupidata, do­mandò inviperito:
- Chi è stato?
Nessuno fiatò, perché i due colpevoli avrebbero pic­chiato chi parlava. Alla ripetizione della domanda, si alza­rono proprio quei due (che si erano messi d'accordo) e in­sieme indicarono Domenico:
- E’ stato lui.
Domenico si alzò stupito. Si guardò intorno come per dire: «Ditegli che non è vero». Ma nessuno alzò gli occhi dai libri. Tanti piccoli vigliacchi. Don Cugliero disse stupi­to a Domenico:
- Proprio tu, che sembri un pezzo di santino! Non me lo sarei mai aspettato. Meno male che è la prima che mi combini, altrimenti ti avrei cacciato da scuola. E adesso prendi il libro e vieni a inginocchiarti in mezzo alla classe, vicino alla stufa. Sentirai come si sta bene accanto a una stufa spenta!
Domenico s'inginocchiò dove diceva il maestro. La le­zione fu chiusa prima del solito, perché faceva troppo fred­do nella scuola.
(Carlo Savio nel 1912 era consigliere comunale a Mon­donio, e testimoniò sotto giuramento: «A questo fatto io fui presente. Il maestro lo pose per castigo in ginocchio in mezzo alla scuola». PS. 313).
Uscendo dalla scuola, però, qualcuno fu preso dal ri­morso, e sussurrò a don Cugliero:
- Guardi che non è stato Domenico. Sono stati quei due là.
Don Cugliero cadde dalle nuvole. Richiamò a gran voce Domenico, che era appena partito con i suoi libri.
- Ma perché sei stato zitto? Così ho compiuto un'in­giustizia davanti a tutta la classe. Bastava che mi dicessi:
«Non sono stato io!».
Domenico rispose tranquillo:
- Anche il Signore è stato calunniato ingiustamente. E non si è mica ribellato.
Don Cugliero rimase così colpito da quelle parole, che pensò tra sé: «Questo è un ragazzo buono sul serio. Gli farò un grosso regalo».
Alcuni mesi dopo prese la carrozza, e si recò a Torino, dove abitava il suo compagno di seminario don Giovanni Bosco. Lo trovò in un cortile affollato da centinaia di ra­gazzi. Quando lo vide, Don Bosco gli andò incontro a brac­cia aperte:
- Caro vecchio Cugliero! Che piacere rivederti! Scom­metto che ti sei stancato di stare tra quelle colline tra le vol­pi. Perché non vieni anche tu a lavorare tra questo esercito di ragazzi? Saresti un maestro coi fiocchi!
- Tu di ragazzi ne hai davvero più di me - sorrise don Cugliero guardando quella splendida baraonda.
Ma io ne ho uno che vale tutti i tuoi messi in fila. E sono venuto per regalarlo al tuo Oratorio. Si chiama Domeni­co Savio, e noi lo chiamiamo «Minot». Se sai tirarlo su come si deve, ne verrà fuori un sacerdote di Dio di prim' ordine!
- Sei sempre stato esagerato, tu - scherzò Don Bosco Anche tra questi che vedi correre e giocare come dia­volotti scatenati, ci sono dei veri angeli, sai? Comunque, per me va bene. Io verrò ai Becchi per la festa del Rosa­rio. Fammi incontrare questo tuo piccolo campione con suo padre.

Il figlio della sarta
2 ottobre 1854. Nel cortile, davanti alla sua casetta dei Becchi, Don Bosco vide arrivare Minot con suo papà. Quell'incontro (uno dei più importanti della sua vita) Don Bosco lo narrò come se l'avesse filmato con una cine­presa.
«Era... di buon mattino, allorché vedo un fanciullo ac­compagnato da suo padre che si avvicina per parlarmi. Il volto era ridente, l'aria rispettosa:
- Chi sei, gli dissi, donde vieni?
- Io sono, rispose, Savio Domenico, di cui le ha parlato Don Cugliero mio maestro, e veniamo da Mondonio.
Allora lo chiamai da parte, e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, siamo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui. Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore, e rimasi non poco stupito... Dopo un ragiona­mento alquanto prolungato, prima che io chiamassi il pa­dre, mi disse queste precise parole:
- Ebbene, che gliene pare? Mi condurrà a Torino per studiare?
(Don Bosco aveva saputo da don Cugliero che la mam­ma di Domenico era la sarta di Mondonio, cuciva i vestiti per gli abitanti del piccolo paese. E rispose:)
Mi pare che in te ci sia della buona stoffa.
- A che può servire questa stoffa?
- A fare un bell'abito da regalare al Signore.
- Dunque io sono la stoffa, ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un belì' abito pel Signore.
- Io temo che la tua gracilità non regga allo studio. (Don Cugliero doveva avergli pure detto che due fratellini di Domenico erano morti pochi giorni dopo la nascita, e che altri tre nati, Raimonda di 7 anni, Maria di 5 e Gio­vanni di 2, non erano fiori di salute).
- Non tema per questo. Quel Signore che mi ha dato fi­nora sanità e grazia, mi aiuterà anche per l'avvenire.
- Ma quando abbia terminato lo studio, che cosa vuoi fare?
- Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero... diventare sacerdote.
- Bene, ora voglio provare la tua capacità di studio. Prendi questo libretto. Ouest' oggi studia questa pagina, do­mani tornerai a recitarmela.
Ciò detto, lo lasciai in libertà di andare a giocare, e mi misi a parlare con il padre. Passarono non più di otto minu­ti, quando ridendo si avanza Domenico:
- Se vuole, recito adesso la pagina.
Presi il libro, e con mia sorpresa vidi che non solo sape­va a memoria la pagina, ma che comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.
- Bravo, gli dissi, tu hai anticipato lo studio della tua lezione ed io anticipo la risposta. Ti condurrò a Torino, e fin d'ora sei iscritto tra i miei cari figlioli. Comincia anche tu a pregare Iddio, affinché aiuti me e te a fare la sua santa volontà».
Mentre Domenico tornava a Mondonio con suo papà, Don Bosco pensò che don Cugliero non aveva proprio esa­gerato. Minot era davvero un piccolo campione.

5 parole misteriose
Nell' estate di quell'anno (1854) una violenta epidemia di colera aveva colpito Torino. Erano morte 1.248 persone. L'epidemia finì con le piogge d'autunno. Alla fine di otto­bre le autorità sanitarie permisero che si riprendesse la «li­bera circolazione» per chi dal di fuori voleva entrare in città. Solo allora Domenico e suo padre poterono partire da Mondonio per Torino in velocifero (così venivano chiama­te le carrozze pubbliche tirate dai cavalli).
Arrivarono il 29 ottobre. La capitale del Piemonte li ac­colse con lo strepito di cento carrozze, le insegne colorate dei negozi, il frastuono continuo ed eccitato del mercato di Porta Palazzo.
Scesero all' Oratorio attraversando il quartiere di Borgo Dora (la zona più inquinata e sporca di Torino, e anche la più colpita dal colera). Entrarono in un cortile dove gioca­vano molti ragazzi, e salirono all'ufficio di Don Bosco. Domenico notò subito un grosso cartello alla parete, con cinque parole misteriose: Da mihi animas, coetera tolle.
Quando suo padre ripartì, superata la prima esitazione, Domenico domandò a Don Bosco cosa significassero quel­le parole. E Don Bosco, sorridendo, lo aiutò a fare la sua prima traduzione dal latino: «Dammi le anime e prenditi tutto il resto». Era la parola d'ordine che Don Bosco aveva preso diventando sacerdote.
«Quand' ebbe capito, Domenico - è Don Bosco che lo racconta - si fece per un istante pensieroso. Poi disse: "Ho compreso. Qui non si cerca denaro. Qui si cercano anime per il Signore. Spero che anche la mia anima sarà del Si­gnore"».

Un biglietto per la Madonna
Quando Domenico entrò all'Oratorio, Don Bosco aveva 39 anni. Era nel pieno delle sue forze e pensava al suo mas­simo progetto: la fondazione dei Salesiani, gente in gamba consacrata a Dio per i ragazzi più poveri. Domenico si trovò con Giuseppe Buzzetti, Michele Rua, Giovanni Ca­gliero, Giovanni B. Francesia; un anno più tardi con Gio­vanni Bonetti e Francesco Cerruti: giovani che Don Bosco preparava, senza rumore, ad essere i primi Salesiani.
I ragazzi che vivevano all'Oratorio giorno e notte erano un centinaio. Tra essi Domenico vide un gruppo di picco­lissimi, che gli altri chiamavano sorridendo «classe bassi­gnana»: erano gli orfani del colera, i bambini rimasti senza più nessuno ai mondo. Don Bosco li aveva accettati in casa sua con un atto di amore più grande delle sue possibilità.
Alla domenica (e nel pomeriggio dei giorni feriali) i prati dell' Oratorio erano invasi da centinaia di ragazzi di ogni genere: venivano a giocare, a imparare qualcosa, a stare con Don Bosco, pronti a divorare la pagnotta della merenda e magari a scappare quando era l'ora di andare in chiesa. Tra quei ragazzi, sovente sporchi e maleducati, Do­menico fu subito un amico. Ricordava Giovanni Bonetti:
«Faceva il catechismo ai più piccoli nella chiesa dell'Ora­torio, e tutti lo ascoltavano volentieri».
La prima festa di Maria Immacolata che Domenico tra­scorse all'Oratorio (8 dicembre 1854) fu una giornata di entusiasmo grande. Papa Pio IX a Roma dichiarava verità di fede che la Madonna era nata senza peccato originale (= Immacolata Concezione). Domenico, nel pomeriggio di quel giorno, andò nella chiesa, si inginocchiò all'altare del­la Madonna e si consacrò a Lei con queste parole che ave-
va scritto sopra un biglietto: «Maria, vi dono il mio cuore, fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei; ma per pietà fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia la di commettere un solo peccato».

Il valletto vestito di rosso

L'inverno 1854-55 fu rigidissimo per tutti.
Alla Camera dei Deputati e al Senato (che si riunivano a Palazzo Carignano e a Palazzo Madama) fu presentata una legge che ordinava la chiusura di 334 case di Religiosi e sfrattava 5.456 tra preti, frati e suore. Erano considerati «persone inutili» per lo Stato. I cattolici protestarono vio­lentemente, ma dopo aspri dibattiti la legge fu approvata. Per diventare esecutiva mancava una cosa sola: la firma del re Vittorio Emanuele Il.
Don Bosco, nelle notti di quell'inverno, fece due volte un sogno che lo turbò profondamente. Vedeva entrare a ca­vallo nel cortile dell'Oratorio un valletto vestito di rosso, che gli gridava: «Annuncia! Grandi funerali a Corte!».
La prima volta, Don Bosco emozionato raccontò il sogno ai suoi giovani più grandi e fidati (Michele Rua ri­corda che, mentre raccontava, aveva le mani coperte da guanti vecchi e sdrusciti, e stringeva tra le dita un maz­zetto di lettere). La seconda volta, impressionatissimo, Don Bosco scrisse al Re. Gli raccontò il sogno e lo scon­giurò di schivare i castighi minacciati respingendo la legge.
Vittorio Emanuele Il non gli rispose, ma i «grandi fune­rali» cominciarono. 12 gennaio 1855: muore la madre del Re, Maria Teresa (54 anni). 20 gennaio: muore la sposa del Re, Maria Adeiaide (33 anni). 10 febbraio: muore il fratel­lo del Re, Ferdinando (33 anni). La marchesa Costanza d'Azeglio scrive al figlio: «La fatalità che pesa sulla fami­glia reale diffonde un velo di tristezza e di terrore sulla città». (Nonostante i gravi lutti il Re ha deciso di approva­re la legge, e la firmerà il 29 maggio).
Domenico insieme a un gruppetto di amici va ogni mat­tina a scuola in città, dal prof. Bonzanino. La scuola è a cento metri da Palazzo Madama dove si discute la «legge maledetta» (come la chiama Cavour), e da Palazzo Reale dove muoiono le regine. Stringendosi nelle mantelline per difendersi dal freddo, gli studenti dell' Oratorio sentono i rintocchi delle campane, vedono le file dei soldati che, tra lo sfarfallio della neve, fanno scorta ai «grandi funerali». Domenico pensa che la morte non entra soltanto nelle po­vere case del suo paese, ma anche nelle regge. Solo Dio è il padrone della vita e della morte.

Bestemmie e bersaglieri
Il 24 giugno all'Oratorio si faceva festa: era l'onoma­stico di Don Bosco. Ognuno cercava di manifestargli il suo affetto, e Don Bosco ricambiava con cuore grande. La sera del 23 giugno 1855 disse sorridendo ai suoi ragazzi: «Domani volete farmi la festa, e io vi ringrazio. Da parte mia, voglio farvi il regalo che più desiderate. Perciò ognuno prenda un biglietto e vi scriva sopra il regalo che desidera. Non sono ricco, ma se non mi chiederete il Palazzo Reale, farò di tutto per accontentarvi».
Quando lesse i biglietti, trovò domande serie e doman­de bizzarre. Un piccolino gli chiedeya «cento chili di tor­rone per averne per tutto l'anno».
Un ragazzo che era appena arrivato dal suo paese gli chiedeva un cucciolo «al posto di quello che ho lasciato a casa e a cui ero tanto affezionato».
Giovanni Roda (un amico di Domenico) gli chiese «una tromba come quella dei bersaglieri, perché voglio entrare nella banda musicale». Sul biglietto di Domenico trovò 5 parole: «Mi aiuti a farmi santo».
Don Bosco prese sul serio tutte le domande, ma special­mente quella di Domenico. Lo chiamò e gli disse:
«Quando tua mamma fa una torta, usa una ricetta che indica i vari ingredienti da mescolare: lo zucchero, la fari­na, le uova, il lievito... Anche per farsi santi ci vuole una ricetta, e io te la voglio regalare. E formata da tre ingre­dienti che bisogna mescolare insieme.
PRIMO: ALLEGRIA. Ciò che ti turba e ti toglie la pa­ce non piace al Signore. Caccialo via.
SECONDO: I TUOI DOVERI DI STUDIO E DI PRE­GHIERA. Attenzione a scuola, impegno nello studio, pre­gare volentieri quando sei invitato a farlo.
TERZO: FAR DEL BENE AGLI ALTRI. Aiuta i tuoi compagni quando ne hanno bisogno, anche se ti costa un po' di disturbo e di fatica. La ricetta della santità è tutta qui».
Domenico ci pensò su. I primi due «ingredienti», gli pa­reva di averli. Nel far del bene agli altri, invece, qualcosa di più poteva fare, pensare, inventare. E da quel giorno ci provò.

Le coperte di traverso e il giornale strappato
Al mattino, in camerata, non c'era la mamma a rifare il letto. Ognuno doveva aggiustarsi da solo. Per i piccolini era un'impresa disperata. Sudavano a tirare le lenzuola a destra e a sinistra, a mettere ordine tra le coperte. Tiravano, spianavano, pigiavano, ma si, c'era sempre qualcosa fuori posto. I più grandi guardavano e ridevano. Domenico da quel giorno non rise più. Si avvicinava: «Vuoi che ti dia una mano?». In due, le cose erano meno tragiche. Le len­zuola si spianavano, le coperte non pendevano più di tra­verso. E alla sera era bello infilarsi «in un letto» e non «in una tana».
Le classi, in quel tempo, non erano composte da 25 sco­lari, ma da 70. Era facile, per i più timidi, smarrirsi, non riuscire a seguire la lezione. Il professore ripeteva, ma non poteva ripetere dieci volte mentre gli altri si agitavano, sbuffavano. Finiva per dire: «Voi due dopo studierete con Domenico». Domenico gli aveva detto: «Se posso aiutare qualcuno, conti su di me».
Poco per volta Domenico si accorse che per fare del be­ne, bisogna anche impedire il male, e che questo era meno simpatico e più pericoloso. Ma ci provò lo stesso.
Un ragazzo aveva portato all' Oratorio un giornale con figure poco pulite, che non avrebbe guardato alla presenza di sua madre. Gli si radunarono intorno tre o quattro. Guar­davano, ridacchiavano. Domenico si avvicinò anche lui, vide il giornale e divenne triste. Lo prese di scatto dalle mani del proprietario e lo strappò. Il ragazzo si mise a pro­testare, ma protestò anche Domenico, a voce più alta: «Ma bravo! Don Bosco ti tiene in casa sua, e tu gli porti in casa questa roba! I giornali che offendono il Signore non devo­no entrare qui dentro».

Le litanie del carrettiere
Nel maggio del 1855 Torino formicolava di gente e di eccitazione. Il Primo Ministro Cavour aveva deciso che il Piemonte mandasse un «corpo di spedizione militare» con­tro la Russia, a fianco dei Francesi e degli Inglesi. Si radu­navano in Piazza Castello e sfilavano per via Dora Grossa i battaglioni in partenza per la Crimea.
Anche i ragazzi dell'Oratorio andarono a vedere la sfila­ta. Domenico vide passare di corsa i bersaglieri con le piu­me al vento, tra il grandinare degli applausi. Vide rotolare sul selciato i cannoni affiancati dagli artiglieri in uniforme campale. Ma vide anche altro. Il traffico da via Dora Gros­sa era stato deviato nelle strette vie laterali. Un cavallo che tirava un grosso carro con cestoni di mele, era scivolato sul­le pietre, e cadendo aveva rovesciato il carro. Le mele rosse e gialle rotolavano tra i piedi dei passanti. Il carrettiere, im­bestialito, percuoteva il cavallo con il manico della frusta, e bestemmiava. Il cavallo si tirò su, le ceste di mele furono ri­messe in ordine, ma il carrettiere continuava la sua litania di bestemmie. Allora Domenico gli andò vicino: «Scusi, mi potrebbe dire dov'è l'Oratorio di Don Bosco?». Davanti a quella faccetta pulita, l'omone smise di bestemmiare, e ri­spose: «Non conosco nessun Oratorio». A Domenico il cuo­re batteva forte mentre disse: «Allora, potreste farmi un al­tro favore?». «Sicuro. Vuoi due mele?». «No. Vorrei che quando siete arrabbiato non diceste bestemmie». L'omone lo guardò sorpreso, poi scoppiò a ridere: «Bravo! Hai ra­gione. Quando mi arrabbio sono più bestia del mio cavallo. Devo mordermi la lingua».

Venti passi e le pietre
Un giorno due compagni di scuola di Domenico si scambiarono titoli pesanti, si pestarono. Poi uno gridò: «Ti sfido a duello!».
In quel tempo, il duello era una triste abitudine tra i mili­tari. Una grave offesa veniva «lavata» con la sciabola, o con la pistola a venti passi. I ragazzi, affascinati come sempre dal­la violenza, li imitavano con il «duello delle pierre». Anche quella volta fu così. In un prato vicino alla scuola, due amici misurarono venti passi, tracciarono due cerchi, collocarono 5 pietre in ognuno dei cerchi. I duellantisi prepararono al lan­cio. Domenico passava di li per tornare all'Oratorio, vide una piccola folla di spettatori e capì. Si trattava di una faccenda pericolosa: una pietra ben mirata poteva spaccare una testa. L'Oratorio era lontano. Non sapeva cosa fare. Quei due era­no suoi amici, ma come farli smettere quella sfida stupida e pericolosa? Entrò nello spazio lasciato libero per i duellanti, si tolse dal collo il piccolo Crocifisso che portava sempre, si avvicinò ai due sfidanti. «Guardate il Crocifisso! - ordinò con fermezza -. E adesso ripetete queste parole: "Gesù è morto perdonando i suoi crocifissori. Io invece non voglio perdonare, voglio fare una tremenda vendetta!"».
Erano due bravi ragazzi, e rimasero senza fiato. Allora Domenico con voce triste continuò: «Perché volere farvi del male? Perché volete dare un dispiacere al Signore e al­le vostre famiglie? Gesù ha perdonato chi lo uccideva, e voi non siete capaci di perdonarvi un insulto, uno schiaffo dato in un momento di rabbia».
Il duello non si fece.
Uno di quei due, diventato adulto, ricordava e diceva:
«Mi sentii pieno di vergogna. Domenico era un caro ami­co, e la nostra era una triste avventura».
Al «processo di beatificazione», cinque testimoni han­no giurato di aver assistito a quella scena drammatica.

Il capolavoro di Domenico
Domenico era diventato molto amico di Michele Rua, Giovanni Cagliero e Giuseppe Bongiovanni, anche se avevano rispettivamente cinque, quattro e sei anni più di lui. Altri suoi amici erano degli ottimi ragazzi: Durando, Cer­ruti, Gavio, Massaglia. All'inizio del 1856 i ragazzi che vi­vevano giorno e notte all'Oratorio erano 153: 63 studenti e 90 giovani lavoratori.
Nella primavera di quell'anno, Domenico ebbe un'idea. Perché non unirsi, tutti i giovani più volenterosi, in una «so­cietà segreta» per diventare un gruppo compatto di piccoli apostoli nella massa degli altri? Ne parlò con alcuni. L'idea piacque. Si decise di chiamare la società «Compagnia del­l'Immacolata».
Don Bosco l'approvò, ma suggerì di non precipitare le cose. Provassero, stendessero un piccolo regolamento. Poi se ne sarebbe riparlato.
Provarono. Nella prima «adunanza» si decise chi invi­tare a iscriversi: pochi, fidati, capaci di tenere il segreto. I soci si impegnavano a diventare migliori con l'aiuto della Madonna e di Gesù Eucaristia; ad aiutare Don Bo­sco diventando con prudenza e delicatezza dei piccoli apostoli tra i compagni; a diffondere la gioia e la serenità attorno a sé.
La Compagnia fu inaugurata l'8 giugno 1856, davanti all'altare della Madonna nella chiesa di San Francesco. Ognuno promise di essere fedele all'impegno.
Don Bosco ricorda che l'entrata in azione della Compa­gnia migliorò decisamente la vita dell'Oratorio. La sua atti­vità principale, infatti, fu quella di «curare i clienti». I ra­gazzi indisciplinati, dallo schiaffo e dall'insulto facile, ve­nivano assegnati ai singoli soci perché funzionassero nei loro riguardi come «angeli custodi». In quei primi tempi in cui Don Bosco era solo a badare a quella folla di ragazzi, la Compagnia, in silenzio, fece del bene grande: non permise che il disordine e la prepotenza s'impossessassero della si­tuazione.
Una seconda categoria di «clienti» che la Compagnia adottò furono i nuovi arrivati. Venivano aiutati a trascorrere in allegria i primi giorni, quando non conoscevano nessu­no, non sapevano giocare, parlavano solo il dialetto del loro paese, e avevano tanta nostalgia.
Con la «Compagnia dell'Immacolata», Domenico aveva realizzato il suo capolavoro. Gli rimanevano da vivere soltanto 9 mesi, ma la sua «Compagnia» sarebbe durata più di cent' anni. In tutte le opere fondate dai Salesiani sarebbe diventata un manipolo di ragazzi impegnati e di vocazioni salesiane.

L'acqua nella mestola dei muratori
La salute di Domenico (come Don Bosco aveva temuto fin dal primo momento) deteriorò rapidamente. Don Bosco lo rimandò in famiglia una prima volta nel luglio del 1856, permettendogli di tornare all'Oratorio in agosto, per gli esami scolastici.
Domenico riprese l'anno scolastico regolare nell'otto­bre 1856. Ma presto comparve una febbre ostinata, e uno sfinimento di forze che gli faceva passare frequenti giorna­te nel lettuccio dell'infermeria. Don Bosco andava sovente a trovarlo, e un giorno gli domandò:
- C'è qualcosa che ti farebbe piacere adesso?
Domenico guardava i muratori che lavoravano sul tetto di fronte e, tutto arso dalla febbre, rispose:
- Mi piacerebbe bere l'acqua fresca nella mestola dei muratori.
Don Bosco non si mise a ridere come se fosse una stra­nezza. Scese, salì sul tetto a prendere l'acqua dei muratori, tornò nell'infermeria e con la mestola sgocciolante diede da bere a Domenico.
Nel febbraio del 1857 la tosse cominciò a tormentare Domenico, e Don Bosco decise di mandarlo nuovamente dai suoi.
- A casa ti siederai vicino al focolare, accanto a tua mamma, e la tosse ti passerà. Anche questa brutta febbre se ne dovrà ben andare.
Domenico lo fissò con quegli occhi grandi e scosse la testa:
- Io me ne vado e non tornerò più. Don Bosco, è l'ulti­ma volta che possiamo parlarci. Mi dica: cosa posso fare per il Signore?
- Offrigli le tue sofferenze.
- E cos'altro ancora?
- Offrigli anche la tua vita -. Il tono di Don Bosco si era fatto grave: sapeva che quell'offerta sarebbe stata ac­cettata.
Il saluto più accorato, Domenico lo diede agli amici della «Compagnia». Poi arrivò papà, e insieme si avviaro­no verso Porta Palazzo, dove partiva la carrozza per Mon­donio. All'angolo della via agitò ancora la mano a salutare il suo Oratorio, gli amici. Don Bosco rimase a guardare, con un dolore profondo, quel ragazzo che partiva. Era sta­to il suo alunno migliore, il santino che la Madonna aveva regalato all'Oratorio per tre anni.

Il sangue dieci volte
A Mondonio, dove mamma e papà lo avvolsero nel loro affetto, il medico diagnosticò «infiammazione polmonare» (= polmonite). Ricorse al rimedio allora universale: levare sangue dalle vene. Per dieci volte, da quel corpo fragile, la lancetta del chirurgo fece sgorgare sangue. Domenico fu letteralmente dissanguato.
Si spense quasi all'improvviso il 9 marzo 1857.
Come furono gli ultimi istanti della vita di Domenico? È’ difficile ricostruire parole mormorate, frasi spezzate, ge­sti di un ragazzo che muore. Ognuno che l'ha visto ricorda specialmente ciò che l'ha impressionato, e raccontando tralascia fatalmente il resto. Così don Alessandro Allora (suo insegnante a Castelnuovo) raccontando la morte di Dome­nico ricorda che negli ultimi istanti invocò i nomi di Gesù, Giuseppe e Maria. Michele Rua attesta che Domenico cer­cava di ricordare le buone parole che gli aveva detto poco prima il parroco. Don Bosco scrive che morì dicendo:
«Che bella cosa io vedo». Ma ognuno racconta cose viste da altri, e a lui riferite. L'unica persona che era presente agli ultimi istanti di vita di Domenico, e che li raccontò do­po aver giurato di dire la verità, è la signora Anastasia Molino, vicina di casa dei Savio. La sua è forse la testimo­nianza più semplice e più fedele. Eccola:
«Ho veduto sovente il giovanetto durante la sua ultima malattia. Negli ultimi giorni, aggravandosi il male e ve­dendo sua madre afflitta, egli le faceva coraggio dicendo­le: "Mamma, non piangere, io vado in Paradiso". Diceva ancora di vedere la Madonna e i Santi. Io fui presente agli ultimi momenti, e ricordo che mentre un buon vecchio gli raccomandava l'anima, egli lo fissava e accompagnava col cuore le sue preghiere. Erano pure presenti suo padre e sua madre. Spirò placidamente» (PS. 344).
Don Bosco scrisse e ristampò tante volte la vita di Do­menico, e ogni volta che rileggeva quelle pagine non riu­sciva a frenare le lacrime.
Papa Pio XII lo dichiarò «Santo» il 12 giugno 1954. Il primo santo di 15 anni.

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NON SCENDO DALLA CROCE Di Fulton j Sheen,vescovo

Ero uscito di casa per saziarmi di sole.Trovai un uomo che

si dibatteva nel dolore della crocifissione.Mi fermai

e gli dissi:"Permetti che ti aiuti"?Lui rispose:

Lasciami dove sono.

Non scendo dalla croce fino a quando sopra vi

spasimano i miei fratelli.

fino a quando per staccarmi

non si uniranno tutti gli uomini.

Gli dissi"Che vuoi che io faccia?"

Mi rispose:

Và per il mondo e di a coloro

che incontrerai che c è un uomo

che aspetta inchiodato alla croce.