A cura del postulatore Padre Cipriano de Meo, dalla rivista: “Il Servo di Dio Padre Matteo da Agnone”
L'albero carico di frutti dolcemente declinava. Poteva dare l'addio a tutti i confratelli, ai tanti discepoli, alle folle che lo avevano ascoltato, a tutti i beneficati. Era vicina la sua dipartita e lo sapeva benissimo.
Fu indetto il capitolo intermedio, dal p. Pietro da Lucera, Ministro Provinciale in carica. Allo scopo fu scelta la città di Lucera. A questo capitolo, che fu celebrato dopo Pasqua, partecipò il p. Matteo, come superiore di Agnone, ove ricopriva anche la carica di Lettore. Dovendosi eleggere i guardiani dei Conventi, si voleva rieleggere il p. Matteo che già aveva finito il triennio. Questi, però, desiderando vivamente di rimanere senza prelatura, scongiurò i superiori della provincia perché gli concedessero tale grazia. Fu contentato.
Nella sistemazione delle famiglie religiose, egli è assegnato al Convento di s. Elia a Pianisi, ove è superiore il p. Bonaventura da Apricena. A s. Elia non poteva essere semplice suddito, ma era il maestro che insegnava a soffrire dal suo povero giaciglio, con la stessa chiarezza ed incisività con cui aveva insegnato dalla cattedra.
Si era acuita l'ora delle sue sofferenze, divenute preghiera. Ne aveva tante e tutte le sopportava con quella forza di rassegnazione di cui sono ricche le anime generose del suo stampo.
Da tempo si trascinava dietro una forte podagra che gli rendeva sempre più penoso il camminare. I piedi non gli servivano più per muoversi, ma per fargli pensare ad un altro cammino che fra breve avrebbe iniziato.
Il clima di s. Elia a Pianisi non era adatto per il suo male. I dottori non avevano altro rimedio che tentare il cambiamento di aria. Dove? La scelta cadde sul fortunato Convento di Serracapriola, che egli, per molti anni aveva onorato con la sua presenza, fatta di opere virtuose e sante. I frati di s. Elia a Pianisi si dovettero privare della gioia di averlo tra di loro, per cederlo e definitivamente, al Convento di Serracapriola che poteva, in certo senso rivendicare un invidiabile diritto, quello di sentire, sino alla fine, quell'insegnamento che ebbe il privilegio di sentire per primo.
L'arco della sua attività in provincia, si aprì e si chiuse, per dono della Provvidenza a Serracapriola.
Da S. Elia a Serracapriola - Questo viaggio fu come la salita del suo calvario; lungo, interminabile.
Data la piena impossibilità di andare a piedi, i Frati di s. Elia gli procurarono un cavallo. I frati che lo accompagnavano strada facendo, si accorsero, che non era possibile arrivare a Serracapriola sul cavallo. Le gambe penzoloni, infatti, aumentavano il dolore dei piedi. Decisero di trovare un carro che non fu difficile trovare per il p. Matteo. Lo adagiarono sul carro, lo coprirono ben bene, e soffrendo e pregando, ripresero il cammino che non era né breve, né comodo.
La notizia che il p. Matteo era stato assegnato a Serracapriola, era già arrivata al p. Bernardino da Castelluccio superiore del detto Convento. I frati della nuova residenza erano impazienti di averlo con loro il più presto possibile. Il p. Matteo era una preziosa colonna che cadeva tra le loro braccia. Dopo un viaggio così lungo e penoso, il piccolo e silenzioso corteo, superata la salita della collina di Serracapriola, qualche chilometro ancora, e sono arrivati alla porta del Convento. Piena oscurità ricopre la zona. La notte è fonda. Solo qualche raro lumicino aiuta i viandanti. Si bussò alla porta del Convento, ed i Frati, passatisi la voce dell'arrivo del p. Matteo, con passo svelto, vanno incontro a colui, che resosi docile strumento nelle mani di Dio, arrivava a loro come una grazia. Tutti lo abbracciarono, gli baciarono le mani, ed egli sorrise di cuore a tanta tenerezza, che nella sua umiltà, pensava di non meritare.
Lo tolsero dal carro con molta accortezza per non moltiplicargli i dolori, lo presero sulle braccia per portarlo nella cameretta preparata per lui. Fatti pochi passi, prima che si arrivasse alla porta battitora, si passò sulla buca della sepoltura dei Frati che era sotto l'atrio antistante la Chiesa. Il p. Matteo, con voce flebile disse le parole del Salmista:"Haec requies mea, in saeculum saeculi, hic habitabo quoniam elegi eam". I Frati, quasi dimenticando i dolori della podagra, dello stomaco e del fegato, dell'illustre infermo, erano traboccanti di gioia, perché avevano tra loro il generoso operatore di miracoli, colui che aveva saputo distribuire le insondabili divine ricchezze.
Entrati nel chiostro, quest'incontrollata gioia, esplode nel Canto del Te Deum intonato dal superiore p. Bernardino da Castelluccio. Il chiostro, solo per pochi momenti risuona del canto del ringraziamento, perché subito intervenne il p. Matteo, che rivolgendosi al superiore, disse:"Padre mio, ai morti non si canta il Te Deum, ma si dice il De Profundis". Nell'animo dei Frati scese un mal celato senso di tristezza. Dovettero spezzare il canto del Te Deum e seguitare la recita del De Profundis iniziato dallo stesso p. Matteo. Recitando detto salmo, lo accompagnarono nella sua cameretta, lo deposero pian piano sul misero letticciolo. Ai Frati che gli stavano attorno disse: "Con questo medesimo salmo, fra non molto uscirò per questa porta".
Egli che ebbe la missione di insegnare, la esercitò sino alla fine dei suoi giorni: il lettucciolo della sua cameretta, assumeva il ruolo di pulpito e di cattedra. L'ammirevole pazienza con cui sopportò le ultime infermità, insegnò a prendere dalla mano di Dio i giorni degli applausi e quelli della sofferenza. Con questo insegnamento concludeva la sua missione di sacerdote, di oratore e di professore, in modo degno della sua fede e della sua Regola.
Negli ultimi giorni di ottobre fu preso da fortissima febbre. Fu chiamato ancora una volta il medico; la scienza non aveva altro da dire. Rassegnato, ascoltò l'ultima parla del medico che non dava speranza. Egli era già pronto per salpare da quel povero convento di Serracapriola, come da un porto terreno, per l'eternità.
Pregò ripetutamente i confratelli perché lo tenessero presente nelle loro preghiere e voleva che gli si parlasse unicamente di Dio.
La notizia della prossima morte del p. Matteo, addolorò moltissimo i Frati. Essi avrebbero voluto tener ancora per molti anni colui che fu assiduo nelle veglie, nelle speculationi di studio, e nelle fatiche dello scrivere. Il p. Matteo, sereno come un giorno di sole, sta in atteggiamento devoto sul suo giaciglio, in attesa che venga l'angelo bianco a dirgli che l'udienza eterna è aperta. L'attesa, non è una pausa di lacrime per rimpiangere il passato, ma è piena di misterioso colloquio, fatto con gli occhi e con le labbra con un vecchio Crocifisso che egli si fece portare vicino al letto. Erano dialoghi tra Maestro e discepolo, fra la terra ed il Cielo. Accanto al Crocifisso volle anche un vasetto di acqua santa con cui aspergeva il letto.
L'intelligenza e la memoria erano limpidissime. Ricordava tutti, ed a tutti, vicini e lontani voleva chiedere scusa per qualche eventuale mancanza e per dire a tutti una parola di ringraziamento. Questo gesto di fraternità senza confine, gli portava alla memoria le folle che lo avevano ascoltato nelle chiese o nelle piazze, i peccatori che gli avevano promesso conversione, tutti i moribondi che lo vollero custode e guida del loro ultimo respiro. In questo vasto giro d'orizzonte, punto centrale era la sua coscienza, con rigoroso esame.Tutto era pronto per spiccare il volo.
Chiamò il p. Bernardino da Castelluccio, superiore del Convento, fece la sua confessione generale, che poneva un sigillo a quella lusinghiera preparazione alla morte, che fu la sua vita.
L'animo dei confratelli era inconsolabile al pensiero che fra poco avrebbero dovuto fare i funerali a colui, che pur essendo di giovane età, si poteva definire il patriarca della provincia alla quale aveva procurato un multiforme onore.
II convento di Serracapriola stava diventando più silenzioso del solito. Gravava il pensiero del prossimo lutto, che toglieva fiato ed energia a quei Frati tanto solerti.
Le magnifiche ottobrate pugliesi, avevano fatto nutrire qualche speranza... ma fu un miraggio. Il respiro dell'infermo si faceva sempre più lento. Non aveva più forza quel corpo che affrontò mille fatiche; aveva bisogno che altri lo aiutassero a sollevarsi. Erano mani materne quelle dei Frati, che avevano l'onore di toccare un santo reso pesante dalla triste vendetta del retaggio d'Adamo.
Silenziosamente, quasi in punta di piedi camminavano quei Frati che non volevano disturbare il prezioso silenzio dell'infermo, con il rumore dei rozzi sandali o il fruscio delle ruvide tonache.
È l'imbrunire dell'ultimo giorno di ottobre, venerdì. Il delicato tintinnio di un campanello rompe quel silenzio arcano, due frati con le torce accese, squarciano l'oscurità del Convento: è il Viatico del p. Matteo. Il volto dell'illustre infermo si abbellì di tutta la gioia di cui abbondava il suo cuore. Veniva Gesù nella sua cameretta la quale diventava la sala dell'ultimo convegno terreno tra il Maestro ed il suo messaggero. Questa gioia diede forza al corpo. Si alza, si pone in ginocchio per ricevere con la massima umiltà il Gesù della vita.
Poi si rimette sul letto. Gli occhi chiusi per la fede; e prega con la mente e con il cuore. Le labbra, devotamente dicono: Gesù, Gesù... Il piccolo corteo si scioglie: non hanno più senso i ceri, né il suono del campanello, saranno sostituiti tra poco da altra luce e da altri suoni.
Fece chiamare intorno a sé tutti i Frati e diede ancora una volta una prova del suo sentito apostolato. Non fece un discorso, ma volle leggere le sue Proteste, allo scopo di giurare fedeltà a Dio sino all'ultimo fiato. Scandì quelle parole con coraggio di chi seriamente promette e giura sulla sua promessa. I Frati non seppero nascondere le lacrime, quando furono invitati a sottoscrivere la carta delle sue Proteste.
La firma apposta aveva il valore della testimonianza e volle che quel foglio gli fosse messo al collo, perché non dimenticasse la promessa giurata davanti a tanti testimoni.
L'Unzione degli Infermi, chiesta ripetutamente, diede l'ultima pennellata ad un quadro già pronto per essere imitato in terra e festeggiato in Cielo.
Una goccia di Olio Santo, unse quegli occhi meravigliosi, quelle mani benedette e benedicenti, quei piedi rigonfi di cammino, l'udito che accolse le voci penitenti, l'olfatto che gustò il soave odore di Cristo. Recitò tutte le preghiere che recitava il sacerdote che gli amministrava il sacramento.
Tutto era stato adempito, il programma puntualmente attuato. Aveva rivestito l'abito nuziale; era pronto per il banchetto.
Egli, devotissimo della Passione di Gesù, devotissimo della Madonna, chiese al Signore di morire di venerdì o di sabato. Ottenne la grazia. La celeste chiamata venne puntualmente il 31 ottobre 1616, venerdì, a sera inoltrata, Vigilia di tutti i Santi.
Spirò dolcemente, con Gesù nel cuore con somma pace e quiete dicendo: "Madonna delle Grazie portami in Paradiso". Aveva 53 anni e 37 di vita cappuccina.
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