giovedì 10 aprile 2014

L’UBBRIACHEZZA



 - Gesù Cristo ci avverte che stiamo attenti su di noi, affinché non ci accada di lasciarci aggravare dalla crapula e dall'ubriachezza (Luc. XXI, 34). Quando l'ubriachezza arriva al punto di privarci dell'uso della ragione, è peccato mortale. Perciò S. Agostino afferma che chi si studia di ubriacare uno, facendolo bere più del bisognevole, gli farebbe meno male se lo pugnalasse, piuttosto che uccidergli l'anima con l'ubriachezza (Serm. CCXXXI). Il Savio ci proibisce di prendere parte ai banchetti dei beoni, perché quelli che si danno al vino, saranno cacciati dall'eredità dei loro padri. Il vino s'insinua dolcemente, ma finisce col mordere come serpente e spande il suo veleno come basilisco (Prov. XXIII, 20-21, 31-32). L'Ecclesiastico indica come cagione dei traviamenti dei saggi, insieme con le donne, il vino (Eccli. XIX, 2).
«Guai a voi, dice Isaia, che bevete da mane a sera: guai a voi che siete robusti a tracannare vino e ostentate la vostra forza nel vuotare calici pieni di liquori inebrianti. Perciò, come la fiam­ma divora la paglia, cosi questi uomini bruceranno fino nelle radici e la loro stirpe se ne andrà in polvere» (ISAI. V, 11, 22, 24). Un bicchiere colmo di vino è un pozzo dorato nel quale l'ubriaco cade, perde l'anima insieme con la ragione, e si annega con tutto ciò che possiede. Sant'Agostino chiama la ubriachezza il pozzo dell'inferno (Serm. CCXXXI).
Grandissimo e abominevole delitto è dunque l'ubriachezza; colpevolissimi sono i bevitori che si abbandonano a così mostruosa e degradante passione. Peccato speciale è l'ubriachezza, perché mette il peccatore in un pericolo certo e inevitabile di dannazione eterna. Gli altri peccatori, quando si vedono minacciati dalla morte, avendo la ragione si pentono, e possono ottenere il perdono. Ma chi è ub­riaco, non essendo in senno, non è capace di pentimento, di pe­nitenza, e se muore in tale stato va dannato.

2. FUNESTI EFFETTI DELL'UBRIACHEZZA. - 1° L'ubriachezza uccide la ragione naturale. 2° L'ubriaco non distingue nemmeno più i suoi amici. 3° Egli è allegro dell'allegrezza dei pazzi. 4° Incollerisce senza motivo. 5° Bestemmia. 6° Spira un fetore che ripugna, 7° L'ubria­chezza rende insensato, perché come bellamente si esprime Anacarsi, nel primo bicchiere di vino vi è utilità; nel secondo, gaiezza; nel terzo, voluttà; nel quarto, follia (ANTON. In Meliss.).
Non vi è dunque da stupire se i santi Padri pare non trovino espressioni abbastanza gravi per detestare e fulminare questo vizio. «L'ubriachezza, scrive S. Bernardo, indebolisce il corpo, incatena l'anima; genera turbamento nello spirito, apporta il furore nel cuore; toglie la ragione, così che l'uomo non conosce più se stesso. L'ubriachezza insomma è un demonio visibile che si mostra agli occhi di tutti (De Modo bene vivendi, c. XXV)». S. Ambrogio nota che essa fu causa principalissima della schiavitù (De Elia et ieiunio, c. XVI). Origene vede in essa una malattia che corrompe il corpo e l'anima; vizia lo spirito e la carne; indebolisce tutte le membra; lega i piedi, le mani, la lingua; oscura la vista; toglie la memoria e la cognizione, cosicché l'ubriaco non sa più, non sente più di essere uomo (Homil. III, in Levit.).
S. Basilio dice che l'ubriachezza «è un demonio volontario; è la madre della malizia, il nemico della virtù, di un uomo coraggioso ne fa un codardo; di un temperante, un dissoluto. Questo vizio ignora la giustizia, non conosce la prudenza. Che cosa sono gli ubriachi, se non statue che hanno gli occhi e non vedono, orecchi e non odono, piedi e non camminano? (Homil. XIV, de Ebriet.)». Il Crisostomo la definisce «un de­monio, un morto animato, una malattia che non merita pietà, una caduta che non ha ragionevole scusa, l'obbrobrio universale della schiatta umana (Homil. I, ad pop.)», e paragonava un'anima in preda all’ubria­chezza, ad una città cinta d'assedio, che è tutta sossopra per il turbamento e per il timore (Homil. LIV, ad pop.). S. Ambrogio dice che l'ubriachezza è «fomite a lussuria, strada alla pazzia, veleno della sapienza (De Elia et ieiun. L I, c. XVI)», che per l'ebrietà «lo spirito si accende, l'anima va in fiamme» (De Caino 1. I, c. V). S. Agostino la paragona ad un pantano dove non si vedono guaz­zare che rane e serpi (Serm. CCXXXI).
L'ubriachezza provoca la collera di Dio...; mette l'uomo al di sotto del bruto...; infiamma la impurità...; rovina la sanità e la fortuna...; fa perdere il pudore, la prudenza; spinge a parole disoneste, a contese, a risse, ecc.; uccide l'anima, il corpo, lo spirito, il cuore, l'intelligenza, la memoria, la volontà, la pace, l'onore, la buona fama... «Il vino, dice S. Cirillo, è miele al palato, ma fiele velenoso al capo; solletica la gola, brucia le viscere, fuma nel capo; rende ottusi i sensi, accascia il vigore, distrugge l'immaginazione, spegne la memoria, oscura l'occhio, indebolisce i nervi, fa balbuziente e laida la lingua, agita le mani, infiamma il petto, eccita la lussuria, altera la purezza del sangue, rende scomposto il portamento, insomma mette tal disordine in tutto il corpo, che dalla testa ai piedi non ha più nulla di sano (Lib. 
IV, de Prov. c., V)». «L'ubriachezza, dice il Venerabile Beda, è uno stato di imbecillità che istupidisce la ragione, toglie la memoria, acceca l'in­telletto, eccita la lussuria, lega la lingua, annaspa la parola, corrompe il sangue, contraffà il viso, agita le vene, tura l'udito, indebolisce i nervi, sconvolge il senso, divora le viscere, rende pesante il cervello, snerva il coraggio, chiama il sonno, rallenta la circolazione del sangue, indura l'anima, macchia e sfigura il corpo, profana tutto l'uomo rendendolo oggetto di derisione e di scherno (In Collectan.)». Simile in tutto ai bruti, si può dire che l'ubriaco somiglia in modo speciale alla scimmia, al becco, al porco, al leone; perché il vino lo fa ridicolo e motteggiatore come la scimmia, ributtante come il porco, impuro come il becco, impetuoso come il leone. L'ubriachezza perde, divora, consuma tutto; è una voragine che inghiotte la sanità, la fortuna, la pace, la salute dell'uomo: niente basta a colmarla; è l'immagine del baratro infernale.
Lo Spirito Santo rassomiglia l'ubriaco ad un uomo che dorme in mezzo al mare, ad un pilota che si è lasciato cadere di mano il timone (Prov. XXIII, 34). L'ubriaco non sa mantenere il segreto (Ibid. XXXI, 4); perché come il fuoco prova il ferro, così il vino bevuto fino all'ebbrezza mette a nudo il cuore dell'uomo; vi fa scoppiare la collera, vi porta il turbamento e la rovina (Eccli. XXXI, 31, 38, 40). S. Basilio scrive (Homil. XVI, de Ingluvie): «Come l'acqua è nemica al fuoco e lo spegne, così il vino bevuto oltre misura soffoca la ragione. L'ubriachezza è la morte della ragione, lo spegnitoio della forza, è vecchiaia imma­tura, morte momentanea... L'uomo ne prova quegli effetti che risente un cocchio tirato da cavalli indomiti e sfrenati... La temperanza e la sobrietà formano gli uomini, l'ubriachezza cambia l'uomo in bestia. L'acqua sommerge le navi; il vino annega gli uomini. Quindi quel detto d'Isaia (XXVIII, 7): furono assorbiti dal vino. I beoni assorbono il vino, ma ne sono alla loro volta assorbiti... Come il fumo mette in fuga le api, così l'ubriachezza dà lo sfratto ai doni dello Spirito Santo».
L'ubriachezza è la perturbazione e la rovina delle famiglie: quanti sono i sorsi di vino che l'ubriacone beve più del lecito, altrettante sono le lacrime che fa versare alla moglie ed ai figli... L'ubriachezza distrugge la prudenza, la dignità, il dovere, la fede, la virtù, la re­ligione e scaccia Dio dal cuore... L'ubriacone è un vaso sempre aper­to... Egli beve per vomitare e vomita per bere di nuovo. «O vino! esclama S. Cirillo; o dolcezza allettante ma tutta veleno! Tu odii quelli che ti amano, ami quelli che ti aborrono; uccidi quelli che si dilettano di te, ingoi quelli che ti seguono, ferisci quelli che abusano di te, sei rimedio a quelli che si servono di te sobriamente: Ah! io ti conosco, o tossico melato! (Apolog. in Iudith.)». «Per quelli che vivono nell'ubriachezza, dice il Crisostomo, il giorno si cambia in notte oscura; non perché scompaia il sole, ma perché la mente loro si ottenebra per l'ebrietà. L'ubriachezza è la privazione della sana ragione, è un delirio, è la perdita della sanità dell'anima (Homil. LIV ad pop.)».
Anche Platone lasciò scritto, «che se colui il quale ha il governo di una qualunque cosa, o cocchio, o nave, o esercito, si dà al vino, manda tutto alla malora (Apud Stobeum serm. XVIII)». Quindi tra le leggi che dettava per la sua repubblica, vi era anche questa: «che nessun servo né serva gustasse vino, nemmeno i magistrati, nel tempo della magistratura; né i governatori, né i giudici mentre sono in carica (De Legib. lib. II)».

3. L'UBRIACHEZZA È VERGOGNOSA E DEGRADANTE. - Che vergogna è per l'uomo il mettersi in condizione di non saper più s'egli è uomo, se vive o se è morto! Eppure l'uomo ubriaco si priva del lume della ragione col quale si differenzia dal bruto, e quindi si può annoverare tra le bestie non tra gli uomini, dice S. Basilio (Homil. XIV); egli non è né vivo, è morto, dice S. Gerolamo (In Epl. ad Galat. c. V). Guardate, dice S. Ambrogio, la figura che fa l'ubriaco: egli ha perduto la voce, ha cambiato co­lore, l'occhio scintilla, il fiato abbrucia, le narici fremono, la collera lo dimena (De Elia et ieiun.). Dove vi è l'ubriachezza, vi è Satana, dice il Crisostomo; ivi le parole oscene, le bestemmie, le imprecazioni; ivi i demoni fanno festa. Oh! come l'asino è da preferire all'ubriaco! oh quanto vale di più di lui il cane! Non trovi bestia che nel mangiare e nel bere prenda più del necessario, e ancorché ti provassi a costringervela con la forza (Homil. LVII). E già prima aveva detto: «L'ubriachezza cambia gli uomini in porci, anzi in energumeni. La loro bocca, gli occhi, le narici, e tutti gli altri loro sensi diventano altrettante cloache di corruzione (Homil. LVIII, in Matth.)». S. Ambrogio fa notare che l'ubriachezza pare che cambi perfino i sensi e trasformi l'uomo in belva, perché gli ubriachi sono come pazzi, vanno barcollando in­nanzi e indietro, a destra e a sinistra, cadono e si rialzano per ca­dere di nuovo (De Elia et ieiun. c. XII).
L'ubriachezza porta con sé il disordine e mille miserie. l° L'ubriaco, privo di ragione, mette fuori tutto ciò che ha in cuore, manifesta i segreti, si attira l'odio, prepara il terreno per chi voglia tendergli, agguati. 2° Fà e dice cose ridicole, spregevoli, insensate. Col suo riso sgangherato, dice S. Basilio, con le sue grida, con la sua collera precipitosa, con la sua lussuria sfrenata mette ogni cosa sossopra (S. BASIL. Orat. de Ebriet.). 3° Divora il suo
 patrimonio, e si riduce alla miseria con la moglie e coi figli, perché, come dice S. Ambrogio, «gli ubriaconi bevono in un giorno i lavori di molti giorni (De Elia et ieiun. c. XII)». 4° Mette a scompiglio tutta la casa; rovescia ogni cosa, e tutti fuggono dinanzi a lui. Avviene perfino, talvolta, di doversi levare nel cuore della notte oscura e fredda e fuggire in fretta, per evitare i cattivi trattamenti di tali esseri cangiati in bestie. Vedeteli ravvoltolarsi nel fango, con gli abiti a brandelli, questi in preda ad una gioia insensata, quelli sopraffatti da una melanconia spaventosa, altri agitati da una collera furibonda. Le loro orecchie rombano come onde muggenti, i loro occhi imbambolati non discernono più le cose. La loro vita è un sonno, il loro sonno è per essi una morte. Oh quanto una tal vita è deplore­vole, inutile, scandalosa! Essa è la vergogna del genere umano e con ragione S. Giovanni Crisostomo asserisce che l'ubriaco non è solamente un essere inutile nella società e inetto ai pubblici e privati affari, ma è ancora tale, che il solo vederlo mette ribrezzo, e la com­pagnia ne è intollerabile, per il fetore che manda (Homil. LVII).
Così vorace è il lupo che, anche pienamente sazio, se gli si pre­senta una preda tosto l'assale e la sbrana, poi vomita per potersi divorare il nuovo pasto. Tale è l'ubriacone. Sua unica vita è bere, digerire e vomitare, per bere di nuovo, dice S. Bernardo (Epist.); mette tutta la sua felicità nel soddisfare il palato. Non si sveglia e leva che per bere, e non beve che per dormire; più vino beve e più ne vuol bere; non ha ancora cessato, che già ricomincia di nuovo. O vita animalesca e degradante! Cade per istrada, bisogna sorreggerlo; e cade a tavola, bisogna portarlo a letto. Di lui dice il profeta Abacuc: «Ti sei coperto d'ignominia; bevi ancora e dormi, e un vomito ignominioso seppellisca sotto un cumulo di sozzura la tua gloria» (II, 16).
Che cosa vergognosa è mai quella di bere più vino di quello che ne sopporti lo stomaco! esclama Seneca. O quanto spesso i beoni si abbandonano a eccessi dei quali arrossiscono gli uomini sobri! L'ubriachezza è una vera follia volontaria la quale, togliendo a chi ne è schiavo il pudore che si sforza di rattenerla, questi non pensa più che a darsi in braccio ad ogni vizio e metterlo in mostra; perché quando l'ubriachezza si è impadronita di un uomo, egli propaga tutto ciò che di malvagio si cova nel cuore. Osservate quali disor­dini ha cagionato l'ubriachezza: essa ha dato in potere ai nemici nazioni forti e bellicose; ha diroccato fortezze che si difendevano eroicamente da lungo tempo; ha abbattuto poderosissimi e terribili com­battenti; ha vinto quelli che il ferro non aveva potuto soggiogare (Ad Lucil.).

4. L'UBRIACHEZZA È FOMITE D'IMPUDICIZIA. - «Non ubriacatevi di vino, nel quale è lussuria» - dice S. Paolo (Eph. V, 18), il quale l'aveva imparato dai libri sacri dov'è scritto: «Cosa lussuriosa è il vino, e turbolenta è l'ubriachezza: chi si diletta di loro non sarà mai saggio» (Prov. XX, 1). I costumi corrispondono alla temperanza del corpo; l'uomo sobrio è continente, l'intemperante è voluttuoso. «Dovunque s'incontra la crapula e l'ubriachezza, state certi di trovare regina l'impudicizia, scrive S. Gerolamo. Io non crederò mai casto un ubriacone; e quantunque addormentato dal vino, può tuttavia commettere lussuria a cagione del vino. Noè prende in un'ora, dominato dal vino, tale indecente atteggiamento, che non aveva mai preso per seicento anni indietro. Lot si ubriaca una sola volta e commette un incesto senza saperlo; e così quegli che Sodoma non aveva vinto, fu vinto dal vino (In c. I. ad Tit.)».
Il medesimo santo Dottore dice che né dal Vesuvio, né dall'Etna, né dalla terra di Vulcano, né dall'Olimpo si sprigionano fiamme così ardenti come quelle che bruciano le midolle dei giovani infarcite di vino e di alimenti (Ad Furiam.). «Il ventre gonfio di vino, scriveva a Eusto­chio, bolle d'impudicizia; chi empie il ventre di vino, nutrisce Venere. Il vino e la giovinezza sono due focolari di libidine; perché spargere olio sul fuoco della gioventù? perché ad un corpicciuolo già in fiamme aggiungere esca? (Ad Eustoch.). Semenza di lussuria è la bevanda del vino» (Contra Iovin.).
Non meno energicamente si esprime S. Basilio: «L'incontinenza scaturisce pubblicamente, come da naturale sua sorgente, dal vino; da questo stimolata, acquista tal forza che dà in pazzie e furori peg­giori di quanti ne possano fare i bruti più lascivi... L'ubriachezza è il fornite della lussuria, l'alimento della voluttà, la peste della gio­ventù, il veleno dell'anima, la rovina delle virtù... Il fuoco che si ac­cende nelle vene portatovi dal vino, diventa una fornace d'infocate saette a uso del demonio; il vino fa su le passioni quell'effetto che fa l'olio su la fiamma (Homil. contra Christ.)». La medesima espressione adopera S. Ber­nardo: «L'ubriachezza nutre la fiamma della fornicazione» (Epist.); e S. Agostino la definisce: «Turpitudine dei costumi, disdoro della vita, obbrobrio dell'onestà, corruzione dell'anima (De Sobrietate et Virgin.)». Finalmente S. Ambrogio dice: «Per gli occhi entra nel cuore la lussuria; per l'ubriachezza divampa; è que­sta fomite di libidine, per cui lo spirito s'infiamma, l'anima brucia. Infatti l'ubriaco, caldo di per sé e riscaldato dall'ardente vapore del vino, non può contenersi, e diventa zimbello di bestiali libidini (Apolog. II, in David. c. III)». Altrove il medesimo Santo la chiama il naufragio della castità, l'incentivo alla libidine (De Elia et ieiunio).

5. L'UBRIACHEZZA È SORGENTE DI OGNI VIZIO. - «Madre di tutte le virtù è la sobrietà, dice Origene; e al contrario, madre di tutti i vizi è la ubriachezza» (Homil. III, in Levit.). S. Giovanni Crisostomo scrive che «nessuno è così intimo e caro amico al demonio, quanto chi, si dà all'ubriachezza, perché questa passione è la sorgente, la madre, il principio di tutti i vizi (Homil. LVIII, in Matth.)». Non ne parlano diversamente S. Ambrogio e S. Agostino: quegli la chiama arsenale di tutte le passioni (De Elia et ieiun.), madre di ogni genere di delitti, tempesta della carne, naufragio della castità (Exhort. ad Virg.); questi vede in lei la sorgente di tutti i misfatti, la materia delle colpe, la radice dei delitti, l'origine di tutti i vizi (Tract. de Sobriet. et Virgin.). Il vino conduce all'orgia; l'orgia alla fornicazione; la fornicazione alla perdita della fede e della religione; la perdita della fede all'apostasia; l'apostasia alla perdita eterna di Dio e dell'anima: di modo che dobbiamo convenire con Ponziano nel chiamare l'ubriachezza «la metropoli di tutti i mali» (De ebriet.); e nel qualificarla, con S. Basilio, «un demonio introdotto volontariamente, per mezzo del piacere, nell'anima; madre della malizia, nemica giurata della vir­tù (Apud Anton. in Meliss, L I, c, XLI)».
6. CASTIGHI DELL'UBRIACHEZZA. - Noè si ubriaca, ed ecco il suo figlio Cam insultarlo e punirlo con amara derisione. Sansone avvinazzato è consegnato da Dalila ai nemici che, strappatigli gli occhi, lo condannano a girare una macina, come un giumento. Si addormenta Oloferne ubriaco, e Giuditta gli tronca il capo. Baldassarre vede in mezzo alle anfore ed ai calici una mano che segna la sua sentenza di morte, e dal banchetto passa al sepolcro. I figli di Giobbe restano schiacciati sotto la casa, che loro cade addosso mentre stanno facendo baldoria. Erode, avvinazzato, ordina la decapitazione di Giovanni Battista, ed è anch'egli colpito da morte crudele. L'epulone del Vangelo, amico della tavola, è precipitato nell'inferno e non può, dice S. Giovanni Crisostomo, ottenere dopo questa vita nemmeno una goccia di acqua (Homil. in Ev. Lucae). Amàno, osserva S. Ambrogio, in mezzo ai vini di splendido convito, paga il fio della sua ubriachezza (De Elia et ieiun.). Come è vero quello che dice S. Basilio! «L'ubriaco è assorbito, mentre si crede di assorbire. Infatti come il pesce, quando si lancia avido all'amo, si affretta ad ingoiare l'esca e si trova in quel punto il ne­mico tra le fauci, così l'ubriacone ingoia col vino il suo nemico che lo spinge a ogni più vile e più vergognoso eccesso, tanto che si può paragonare ad un energumeno, con questa differenza, che gli ossessi sono tormentati dal diavolo, loro malgrado; al contrario, l'ubriaco è tormentato, avvilito, malmenato dall'ubriachezza, perché così gli piace (Admonit. ad filium spirit.)».
Dice il Savio: «A chi le minacce? a chi le risse? a chi i trabocchetti? a chi le ferite senza cagione? a chi l'occhio sanguigno e ardente? non forse a quelli che guazzano nel vino e prendono diletto nel vuotare bicchieri?» (Prov. XXIII, 29-30). Ah! dunque, «non provocate a bere quelli cui piace il vino, perché il vino ne ha mietuto molti» (Eccli. XXXI, 30). È giusto giudizio di Dio, che i beni da lui datici a nostro uso e nostra santificazione volgano a nostro danno e castigo se ne abusiamo; di modo che troviamo i nostri persecutori e manigoldi in quelli che abbiamo fatto nostri idoli. Tale è il vino; tali sono gli onori, i tesori, i piaceri; tali le creature animate nelle quali abbiamo posto eccessiva compiacenza.
Infiacchire, di volontà deliberata, la sanità e la vita; perdere la ragione, l'onore, la tranquillità, la fortuna, l'anima, il cielo, Id­dio, ecc., tutti questi castighi che si rovesciano su l'ubriacone non sono essi spaventosi? Non è forse una punizione terribile assimilarsi, anzi rendersi inferiori al bruto, al giumento; eccitare in noi le più sozze inclinazioni, senza potere né volere vincerle? Non è orrendo ca­stigo bere al calice dell'ira di Dio, inebriarsi del vino dell'angoscia, della perplessità, dell'ignominia, della confusione; metterei in condizioni di non più pentirci, di non più ricevere i sacramenti, non più otte­nere misericordia? Si può immaginare stato più deplorevole e più spaventoso per l'eternità? Ora l'ubriaco si espone a tutte queste scia­gure, a tutti questi castighi; egli per l'ordinario se li attira, se li merita
 sempre... All'ubriacone più specialmente che ad ogni altro peccatore sta riservato quel castigo descritto nell'Apocalisse: «Be­verà del vino puro della collera di Dio, che sta preparato nel calice della sua vendetta; e sarà cruciato nel fuoco e nello zolfo; e il fuoco dei suoi tormenti s'innalzerà per i secoli dei secoli e non avrà riposo né giorno né notte» (Apoc. XIV, 10-11)
Cornelio A Lapide – Tratto da Totustuus

    

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NON SCENDO DALLA CROCE Di Fulton j Sheen,vescovo

Ero uscito di casa per saziarmi di sole.Trovai un uomo che

si dibatteva nel dolore della crocifissione.Mi fermai

e gli dissi:"Permetti che ti aiuti"?Lui rispose:

Lasciami dove sono.

Non scendo dalla croce fino a quando sopra vi

spasimano i miei fratelli.

fino a quando per staccarmi

non si uniranno tutti gli uomini.

Gli dissi"Che vuoi che io faccia?"

Mi rispose:

Và per il mondo e di a coloro

che incontrerai che c è un uomo

che aspetta inchiodato alla croce.