lunedì 21 marzo 2011

Il Padre e il Figlio nella Pssione



Lectio divina su Lc 15.11-5Z

Mons: Bruno Forte, arcivescovo Chieti-Vasto
Il Dio che Gesù ci ha rivelato nei giorni del­la sua carne è il Padre, la cui infinita misericordia accoglie il peccatore pentito e lo rende libero. È il racconto presentato in Luca 15,11-32 a narrarci la storia di questo incontro: esso viene comunemente chiamato "la parabola del figliol prodigo", ma con maggiore proprietà dovrebbe essere intitolato "la parabola del Padre misericordioso". Il vero prota­gonista non è il figlio, anche perché di figli ce ne sono due, ma è il Padre, verso il quale i due figli, ognuno a modo suo, convergono. Nel racconto agi­scono dunque tre personaggi: c'è anzitutto la figu­ra del Padre, il personaggio centrale, e quindi com­paiono la figura del figlio più giovane, il prodigo, e quella del figlio maggiore. Nei tratti di questi ulti­mi due qualcuno ha voluto riconoscere - non senza una certa ragione - la figura del popolo della nuova alleanza e quella dei nostri "fratelli maggiori", il popolo della prima alleanza, Israele. I due popo­li appaiono così singolarmente accomunati dallo stesso abbraccio di misericordia del Dio vivente...

A Il Padre di misericordia: l'amore che accoglie
Il Padre, presentato dal racconto, può essere su­bito riconosciuto quale figura del Dio di Gesù: lo si comprende dal fatto che la parabola narra la storia del "ritorno a casa" del figlio perduto. Nell'ebraico biblico - lingua della concretezza, che con appena 5750 vocaboli riesce a dire tutto perché si serve di moltissime immagini - l'idea della conversione è resa appunto con "shuv", che vuol dire ritorno (dal verbo "shav" = ritornare: "teshuva" è pentimento): colui da cui si ritorna, il Padre, è dunque la figu­ra del Dio che Gesù è venuto ad annunciare, alla cui casa siamo chiamati a fare ritorno. È un Dio che sovverte ogni presunzione umana di insegna­re a Dio il mestiere di Dio, un Dio "differente": riscoprire il Suo volto non è solo importante per ritrovare sempre di nuovo le radici più profonde della nostra vita e della nostra stessa identità cultu­rale, costruita sul grande apporto della tradizione ebraico-cristiana nel suo incontro con la cultura greco-latina, ma è anche urgente - in un'ora come l'attuale in cui nello scenario del mondo la religio­ne è da alcuni accostata in maniera azzardata alla violenza fondamentalista - e più che mai appare urgente comprendere come il Dio, che è misericor­dia, mai e poi mai potrà giustificare qualsivoglia forma di violenza dell'uomo sull'uomo. Sono al­meno sei le caratteristiche di questo Dio di Gesù, che si lasciano evidenziare nella parabola.
La prima è l'umiltà: il protagonista centrale del racconto si rivela anzitutto come un padre umile. Di fronte alla scelta del figlio che decide di gestir­si la vita indipendentemente da lui, perfino contro di lui, non oppone resistenza. Avrebbe potuto far­lo in base alla Torah, che autorizza il padre ad or­dinare addirittura la lapidazione del figlio ribelle: "Se un uomo - afferma il libro del Deuteronomio (21,18-21) - avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l'abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della cit­tà: `Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è un ingordo e un ubriacone. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà; così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore". Il Padre della parabola non agisce così: lascia partire suo figlio. Si adegua alla sua decisione e sa aspettarlo con un desiderio carico di infinita umiltà. L'umiltà è dunque la prima delle caratteristiche del Dio an­nunciato da Gesù: in realtà, l'unico che può essere veramente umile, l'unico che può abbassarsi verso l`humus" è Dio. Lui soltanto può farsi piccolo per fare spazio all'esistenza dell'altro, in quanto Lui solo occupa ogni luogo. L'umiltà di Dio è il suo ritrarsi perché noi esistiamo. Per indicare questa paradossale accondiscendenza divina la mistica ebraica usava l'espressione "zim-zum", che dice il "contrarsi" di Dio per far posto all'esistenza della sua creatura. La forza dell'immagine trasmette un contenuto profondo: Dio fa spazio alla dignità del­le creature. È come se vi fosse un'auto-limitazione di Dio finalizzata a che noi possiamo esistere nel­la libertà. Il Dio che può tutto, non vuol salvarci contro la nostra volontà. L'Onnipotente accetta di circoscrivere la propria onnipotenza, di arrestar­la dinanzi alla soglia del mistero della persona da Lui creata. Perciò, come diceva Taulero, "la virtù nascosta nel più profondo della Divinità è l'umil­tà", in quanto solo Dio fa originariamente spazio all'altro nel profondo rispetto dell'amore creatore. E Francesco, nelle Lodi del Dio Altissimo, non esi­ta a rivolgersi all'Eterno con l'esclamazione: "Tu sei umiltà!".
Questo Dio umile, che limita se stesso perché la sua creatura esista nella libertà, è anche il padre che sta alla finestra ad attendere il ritorno del fi­glio. Lo si comprende dal v. 20: "Quand'era ancora lontano il padre lo vide e, commosso, gli corse in­contro". Come fa capire l'avverbio makrcín del te­sto greco, che indica lontananza, il padre scrutava da lungo tempo l'orizzonte in un'attesa inesausta del ritorno desiderato. Questo atteggiamento che la parabola lascia intravedere con discrezione e pudore si potrebbe chiamare la speranza di Dio. In verità, l'altro nome dell'umiltà è la speranza: se l'umiltà è fare spazio all'altro perché esista, la spe­ranza è il proiettarsi verso l'altro nel desiderio che egli sia, in una risposta libera e gratuita d'amore.
Il Dio cristiano è il Dio della speranza non solo nel senso che è il Dio della promessa e quindi il fon­damento e la garanzia della speranza dell'uomo, ma anche nel senso che è un Dio che sa attende­re nel desiderio e far festa davanti al ritorno della sua creatura. Ciò che consente di parlare della spe­ranza e dell'umiltà di Dio è l'atteggiamento che spinge il padre commosso (esplanchnisthe, dice il testo greco) a correre incontro al figlio che torna. È una parola che evoca l'ebraico rachamim, il termi­ne che letteralmente vuol dire "viscere materne" e significa che Dio ama con l'amore viscerale di una madre, non in rapporto al merito della sua creatura, ma semplicemente perché la sua creatura esiste (si pensi alle testimonianze stupende di Isaia 49,14-16 o del Salmo 131). La terza caratteristica del padre della parabola è, dunque, l'amore materno, l'amo­re per il quale egli ha rispettato fino in fondo la li­bertà del figlio e continua ad amarlo al di là del suo rifiuto. Dio ama come solo una madre sa amare, con un amore irradiante tenerezza e gratuità, più fedele di ogni possibile infedeltà dell'uomo. Come affermava san Bernardo, "Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli per­ché ci ama".
Questo padre corre incontro al figlio: secondo la mentalità semitica, un simile gesto era a dir poco scandaloso, perché il padre doveva avere sempre un portamento solenne, ieratico. Era il figlio che doveva presentarsi e prostrarsi davanti a lui. Non sarebbe stato concepibile il contrario: che il padre si movesse verso il figlio, anzi, come qui è detto, corresse incontro al figlio e gli gettasse le braccia al collo. La parabola ci pone dinanzi a un padre che non ha paura di perdere la propria dignità, che anzi sembra metterla in pericolo. L'autorità del pa­dre non sta nella distanza che egli mantiene, ma nell'amore irradiante che esprime. Si potrebbe de­finire questa quarta caratteristica come il coraggio dell'amore di Dio: è il coraggio di infrangere le si­curezze apparenti, per vivere l'unica sicurezza che è quella dell'amore più forte del non amore e an­dare all'altro, superando le distanze protettive che la nostra incapacità di amare troppo spesso erige intorno a noi. Molte volte dietro l'autoritarismo di alcuni comportamenti, specialmente di chi ha re­sponsabilità, si nasconde un'incapacità di amare e quindi un bisogno di difendere la propria autorità, senza saper annullare la necessità di questa difesa con la pienezza dell'amore.
La quinta caratteristica del Dio di Gesù risulta da ciò che fa il Padre quando il figlio arriva: la gio­ia. Felice come un bambino, fa festa, lo bacia, l'ab­braccia, ingiunge ai servi di portare il vestito più bello, di mettergli l'anello al dito, i calzari ai piedi e, nientedimeno, di ammazzare il vitello grasso, che è la vera ricchezza della famiglia nella civiltà agricola, pastorale, in cui si inserisce il racconto. Questo padre manifesta dunque una gioia grandis­sima. Tutto ciò che fa è l'espressione evidente del­la gioia: l'abito nuovo, i calzari, l'anello, il vitello grasso; tutto dice una festa eccezionale. È la festa che in cielo si fa per un solo peccatore che si pente e non per i novantanove giusti che non hanno biso­gno di conversione. È la gioia di Dio. Un Dio che sa essere contento, però, prima ha sofferto. Se in Dio c'è una gioia nuova, c'è anche un mistero di sofferenza che la precede e che trae le sue origini dalla compassione, dall'amore viscerale del Padre. Nel "mysterium Crucis", nell'ora dell'abbandono conturbante e del supplizio ignominioso della Cro­ce, la sofferenza di Dio raggiunge il suo culmine: il cristiano crede in un Dio che soffre perché crede in un Dio che ama. Poiché aveva sofferto, il padre non può non rallegrarsi dello shuv, del ritorno del figlio. Tutto questo conduce ad evidenziare l'ulti­ma caratteristica del Dio di Gesù, rivelata attraver­so quanto è stato fin qui detto: il mistero della sua sofferenza.
Il padre della parabola non rappresenta un Dio impassibile, spettatore freddo, asettico, delle soffe­renze del mondo, ma un Dio capace di soffrire per amore della sua creatura. C'è nel racconto un'af­fermazione importantissima, al v 24, ripetuta al v 32, in cui il motivo della gioia e del dolore di Dio è così espresso: "Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". Conviene riflettere sulle due motivazioni. Il primo motivo del dolore del padre è che il figlio "era mor­to", aveva distrutto se stesso. Il secondo motivo - "era perduto" - si collega al fatto che il figlio si era allontanato da lui. Vi è qui una sfumatura di straor­dinaria bellezza: Dio soffre prima di tutto perché la sua creatura soffre e soltanto in secondo luogo per­ché tale sofferenza è causata dall'allontanamento da Lui. Come avviene per ogni vero amore al pri­mo posto non sta il dolore del nostro cuore, ma il dolore dell'altro, la sua rovina. Così è l'amore di Dio, capace perciò di soffrire di una sofferenza d'amore. Se Dio non potesse amare, semplicemen­te non potrebbe soffrire. Il mistero della sofferen­za in Dio è il mistero della sua infinita capacità di amare, senza la quale noi saremmo soltanto dei bu­rattini davanti all'imperscrutabile mistero.
È perciò che Jacques Maritain - "convertito" al mistero della sofferenza di Dio dopo la lettura del diario della moglie Raissa, che ne scriveva con ac­centi struggenti - non esita a dire che il tema della sofferenza divina fa comprendere come talvolta la parola di Dio sia stata subordinata a quella di Aristotele, anziché questa a quella. Il Dio "Motore immobile" non può soffrire, ma non così il Dio bi­blico, che soffre perché ama, coinvolgendosi con le vicende dell'uomo e accettando di diventare pove­ro per amore della sua creatura. È un Dio che non rimane estraneo al dolore degli uomini, prigioniero di un divino egoismo, ma sa "com-patire" la storia della Sua creatura. Come afferma Giovanni Paolo II nell'Enciclica Dominum et vivificantem (nn. 39 e 41) c'è un mistero di sofferenza in Dio Trinità, che è l'altro nome dell'amore divino per gli uomi­ni. Tutte le caratteristiche del padre che la parabola lascia intravedere, rivelano il mistero di questo do­lore d'amore, nascosto nel più profondo del cuore del Padre, il Dio di Gesù.

B. Il figlio più giovane.. la storia di un ritorno
Davanti a questo padre stanno i due figli. Si pre­senta per prima la figura del più giovane, di quel­lo che ha voluto gestire la propria vita per conto suo. Nella sua vicenda c'è chi ha voluto vedere la Chiesa delle genti, venuta dal peccato all'incontro con la grazia redentrice rivelata in Gesù, il Figlio amato. In che cosa è consistito il peccato del figlio prodigo? "Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta. Ed egli divise fra loro le sostanze". È interessante notare che nel greco il termine "so­stanza" è reso con "tòn bíon", cioè la vita, quel che serve per vivere. Ciò significa che il figlio prodigo è colui che non vuol saperne del padre nella ge­stione della sua vita. Chiunque abbia conosciuto un'esperienza di conversione sa che cosa significa voler gestire la vita per conto proprio come se Dio non esistesse, perfino dimenticandosi radicalmente di Lui. Il peccato del figlio prodigo, immagine di ogni peccato, è un peccato di ricchezza, un voler essere padroni della propria vita, un rifiutare di affi­dare perdutamente questa vita nelle mani di Dio, un volersi mettere al posto di Dio per gestirsi da sé.
Quale destino attende il nostro giovane? "Partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostan­ze vivendo da dissoluto". Verbi, avverbi, aggettivi bene esprimono nel testo greco la separazione, la lontananza dal padre, lo sperpero dei beni e le pe­nose conseguenze. Il segno evidente della miseria raggiunta è dato dal v. 16 che, letto nel contesto se­mitico, è veramente sconvolgente: in quell'ambien­te culturale mangiare insieme significava entrare in una comunione di vita. E poiché in quella stessa cultura il maiale era considerato l'animale impuro per eccellenza, simbolo del male e dell'alienazio­ne, il figlio prodigo, che avrebbe voluto mangiare le carrube dei porci, mostra la degradazione a cui è giunto, così profonda da desiderare la comunione con i maiali, da aspirare ad essere nelle loro con­dizioni. L'espressione così pittoresca manifesta quanto è grande il dramma del peccato. Gestirsi la vita da sé significa non vivere più, aver smarrito il senso, la bellezza, la forza, l'essenza della propria vita. Ebbene, il figlio prodigo prende coscienza di tutto questo. Si delinea allora in lui un itinerario, che può definirsi un cammino dalla ricchezza alla povertà. Colui, che ha voluto scegliere la ricchezza, gestire la propria vita, essere padrone di sé, arriva come un povero davanti a Dio per confessare il proprio nulla. Questo itinerario, che è poi l'itinerario di ogni conversione, si svolge in cinque tappe.
La prima tappa, l'inizio della conversione, è nel percepire l'esilio esteriore, nell'avver­tire che si sta male. Questa prima condizione dice che normalmente la conver­sione inizia da una molla egoistica: si sta male e si vorrebbe star meglio. È importantissimo il v. 17: "Allora rientrò in se stesso e disse: quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, io invece..." Nel testo greco il "dé" avversativo è molto espressivo: il giovane sperimenta la miseria della sua condizione anche nel confronto con i su­balterni di casa sua. Il primo momento, dunque, del ritorno a casa, del ritorno a Dio è la percezione dell'esilio esteriore, la coscienza dell'alienazione raggiunta, il riconoscimento della propria mise­ria. Chi non sa vivere questo riconoscimento non conoscerà mai la riconoscenza dell'amore: resterà prigioniero del suo chiuso mondo, come è avve­nuto in ogni realizzazione storica delle ideologie moderne.
Il secondo momento del ritorno del giovane è il ricordo della casa paterna nel contrasto tra la fame che egli sperimenta e quel pane in abbondan­za dato ai salariati, a quelli che non sono figli. La percezione dell'esilio esteriore si congiunge al ri­cordo della patria, al ricordo di una casa dove c'è pane in abbondanza, perfino per i salariati. Questo ci fa capire perché è sempre importante evange­lizzare la misericordia, affinché a nessuno manchi la possibilità del ricordo dolce e salutare della pa­tria perduta. Tra la propria miseria e il ricordo di un'abbondanza perduta viene profilandosi così il terzo momento dell'itinerario della conversione: la percezione dell'esilio interiore. Percepire l'esilio esteriore non basta; è necessario accorgersi che la radice profonda del male è la separazione da Dio. "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". È la separazione da colui che immensamente ci ama. È l'aver voluto gestire la propria vita diven­tando ricchi di sé, ma poveri di Dio e quindi, alla fine, poveri di se stessi. È ricordare che la patria è stata perduta per colpa nostra.
Ecco allora il quarto momento: la percezione dell'esilio interiore diventa il no al passato e il sì al futuro di Dio per noi, perché si ripensa alla patria dell'amore, ci si ricorda che nella casa del padre c'è pane in abbondanza, perché il padre è buono. Senza questo quarto momento la conversione non produrrebbe i suoi frutti. Dopo aver percepito l'esi­lio esteriore e ricordato la patria e avvertito il dolo­re dell'esilio interiore, bisogna avere la speranza e credere che è possibile una vita nuova. Il dramma di Giuda si differenzia da quello di Pietro soltan­to per questo motivo: Pietro ha tradito Gesù non meno di Giuda, anzi, forse, più gravemente perché aveva ricevuto di più. Ma Giuda si ferma alla terza tappa: sente il dolore indicibile della separazione; non osa fare il passo ulteriore, l'atto di speranza; non riesce a credere nell'impossibile possibilità di Dio; e si dispera. Pietro invece piange amaramente, ma confida nel perdono e nella misericordia. Ecco la quarta tappa: ricordando la patria dell'amore oc­corre dire un sì al futuro, nella certezza che il Padre possa farci ricominciare da capo, in modo nuovo e impensato per noi.
E infine la quinta e ultima tappa: andare effetti­vamente dal Padre. Tutto quello che si è detto delle quattro tappe precedenti deve tradursi in un gesto concreto, in un andare verso la casa di Dio. È il gesto che si chiama riconciliazione sacramentale e rende visibile, in un movimento anche esteriore, il cambiamento del cuore: "mi alzerò e andrò da mio padre". È la decisione senza la quale la conversio­ne resterebbe un pio desiderio, ma non si tradur­rebbe nella vita nuova che cambia il destino di una esistenza. Così il figlio più giovane ritrova la vera libertà e giunge alla povertà. Questa è la conversio­ne del figlio prodigo: "Non sono più degno di esse­re chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi servi". È un mettersi oramai completamente a di­sposizione del Padre: "Fa' di me ciò che vuoi; non voglio gestire più la mia vita: voglio che la gestisca tu, perché sei tu il Padre mio!". Dalla ricchezza il giovane e giunto alla povertà: sta qui il cammino della sua liberazione. Dall'essere apparentemen­te libero dal Padre per vivere per sé della propria ricchezza, all'essere libero da sé per vivere per il Padre, totalmente e incondizionatamente aperto a Dio nella povertà del cuore e della vita.

C. Il figlio maggiore: la vicinanza fisica e la vicinanza del cuore

C'è infine l'altro figlio, il terzo e ultimo perso­naggio della parabola, in cui alcuni riconoscono il popolo dell'elezione, Israele, amato da sempre come primogenito e chiamato non meno degli altri a tornare al cuore divino di misericordia, accomu­nato ai fratelli più giovani dalle braccia accoglien­ti del Padre di Gesù. Il figlio maggiore è rimasto sempre in casa, in una situazione di vicinanza fi­sica al padre: è uno che non è mai uscito "dagli atri della casa del Signore". Eppure la vicenda del figlio maggiore fa subito capire che la vicinanza esteriore non significa necessariamente vicinanza del cuore. Si può vivere tutta la vita nella casa di Dio e non amare Dio... Non basta essere garantiti dalle mura della casa del Signore. Quel che conta veramente è la vicinanza del cuore, è l'essere in­teriormente innamorati di Dio. Che cosa accade, dunque, al figlio maggiore? Anche lui vive il suo dramma. Nel ritorno a casa dal lavoro sente le mu­siche, comincia a dubitare, si informa, si adira, de­cide di non entrare in casa: insomma, non perdona al padre di aver perdonato al fratello. Qui si è di fronte allo stesso peccato del figlio più giovane. Il figlio maggiore vuole gestire lui la vita, farsi lui ar­bitro e giudice del bene e del male né più né meno di come ha fatto il prodigo. Pur essendo rimasti ac­canto al Padre ci si può essere talmente allontanati da lui da giudicare la vita e il cuore degli altri.
E il Padre? Come reagisce il protagonista cen­trale del racconto di Gesù? Anche in questo caso "rinuncia" alla propria dignità. Esce di casa per convincerlo, va da lui, quasi a chiedere perdono del suo amore. Il figlio dice delle cose giuste (cfr. vv. 29-30). E tuttavia, davanti al suo atteggiamento di giudizio il Padre lo invita ad una conversione, ad uscire dalla logica del merito e del profitto, per entrare nella logica dell'amore. "Questo tuo fratel­lo era morto, ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato: perciò bisognava far festa". Il Padre invita il figlio maggiore a convertirsi anche lui alla povertà, a passare dalla ricchezza di chi presume di giudicare tutto e tutti, alla povertà di chi si lascia condurre da Dio e giudicare da Dio. Il figlio mag­giore ci fa capire quanto è importante che nella no­stra vita ci sia qualcuno che ci giudichi. Perdere il senso e la bellezza del Dio giudice significa non riconoscere la necessità di Qualcuno che ti possa dire, come solo Dio può fare, chi tu veramente sia. Tutti abbiamo bisogno di chi ci faccia capire chi siamo veramente: e questo riesce a farlo soltanto il giudizio di Dio, non il giudizio di un uomo. Il figlio maggiore è colui che non ha bisogno del Dio giudice perché giudica da sé: si è messo al posto di Dio. Ed ecco allora l'invito del Padre a entrare nella logica della gratuità, a non giudicare secondo i pesi della ragione e del torto, a far pendere tutto dalla parte dell'amore più grande...
Resta a questo punto il problema di sapere che cosa avverrà, perché la parabola non dice come van­no a finire le cose: la parte più interessante quella tutto sommato più difficile sta nel come continuerà la vita del figlio più giovane, una volta tornato, e che cosa accadrà nella vita del figlio maggiore. Qui si può avanzare un'ipotesi. Probabilmente la para­bola termina qui, perché deve continuare nella vita di ognuno di noi. In altre parole, dobbiamo essere noi la vivente "sequentia sancti Evangelii ", il se­guito del santo Vangelo, in cui viene raccontato ciò che nella parabola è taciuto, qui ed ora, oggi. Che cosa sarà la vita di un uomo dopo che si è conver­tito dalle ricchezze alla povertà e ha accettato di dare il primato incondizionato a Dio nella gestione della sua vita? Quale sarà il futuro di chi passasse attraverso una tale conversione? E quale se invece non facesse passi in tal senso? È quanto ciascu­no dovrebbe cercare di comprendere per la propria vita, chiedendosi con umiltà e fiducia: in quale dei due figli mi riconosco di più? In quale delle tappe del loro cammino? In quale dei loro atteggiamenti? Una preghiera ispirata ai testi di Charles de Fou­cauld ci potrà essere di aiuto a porci nell'atteggia­mento più vero davanti al Dio di Gesù, il Dio che è soprattutto Padre di misericordia:
Padre mio, io mi abbandono a te. Fa'di me ciò che Ti piace. Qualunque cosa Tu faccia di me, Ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la Tua volontà si compia in me e in tutte le Tue creature: non desidero nient'altro, mio Dio. Rimetto la mia anima nelle Tue mani, Te la dono, mio Dio, con tutto l'amore nel mio cuore, perché Ti amo ed è per me un'esigenza d'amore il donarmi e rimettermi nelle Tue mani senza misura, con una confidenza infinita,
perché Tu sei il Padre mio. Amen.

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NON SCENDO DALLA CROCE Di Fulton j Sheen,vescovo

Ero uscito di casa per saziarmi di sole.Trovai un uomo che

si dibatteva nel dolore della crocifissione.Mi fermai

e gli dissi:"Permetti che ti aiuti"?Lui rispose:

Lasciami dove sono.

Non scendo dalla croce fino a quando sopra vi

spasimano i miei fratelli.

fino a quando per staccarmi

non si uniranno tutti gli uomini.

Gli dissi"Che vuoi che io faccia?"

Mi rispose:

Và per il mondo e di a coloro

che incontrerai che c è un uomo

che aspetta inchiodato alla croce.